Joshua Redman - Back East - Nonesuch Records, 2007
E’ opinione diffusa che la musica jazz, dopo una straordinaria e rapidissima evoluzione durata meno di un secolo, abbia ormai esaurito le proprie potenzialità espressive: per molti sarebbe una musica “morta”, praticata in modo autoreferenziale da musicisti talvolta bravissimi, ma nient’altro che epigoni dei grandi del passato. L’equivoco consiste nello scambiare la forma per il contenuto: dopo Coltrane, e dopo l’ubriacatura del “free”, non ci sono effettivamente più state significative evoluzioni della “forma” jazzistica (fatta eccezione per certi “raffinamenti” o approfondimenti stilistici), ma la forma non è che il “veicolo” attraverso il quale si esprimono i contenuti poetici.
Anche se nessuna delle lingue più diffuse al mondo ha subito modificazioni epocali negli ultimi secoli, non per questo si è smesso di scrivere, cioè di esprimere contenuti utilizzando forme espressive consolidate da tempo. La stessa considerazione fatta per la letteratura dovrebbe valere anche per la musica jazz. Sono convinto che nel jazz contemporaneo i contenuti non manchino e questo recente lavoro di Joshua Redman, brillante sassofonista figlio del celebre Dewey Redman (che interviene da par suo in due brani), ne costituisce prova evidente.
Joshua è uno di quei musicisti che, pur non essendo “innovatori” formali, riescono ad utilizzare in modo straordinariamente efficace un linguaggio che è stato messo a punto nel secolo scorso dai loro predecessori, con il contributo di tutte le culture musicali, e che è diventato universale, talmente ricco e variegato da non aver quasi più bisogno di ulteriori evoluzioni. Ora in questa lingua si può finalmente “parlare”, ed i musicisti possono cominciare a preoccuparsi di quello che vogliono “dire”, e non più del modo in cui dirlo.
Back East è un bell’esempio di quello che si è detto: Redman e i suoi sodali (tra cui veri e propri “fenomeni”, come il sassofonista Joe Lovano, il contrabbassista Larry Grenadier ed il batterista Brian Blade) si muovono a proprio agio fra originals mai banali e accattivanti rivisitazioni di standards; è un viaggio attraverso paesaggi indefiniti, “terre di nessuno” a cavallo fra uno stile e l’altro ormai tipiche del jazz contemporaneo, un linguaggio più vivo che mai, quando viene utilizzato al meglio da musicisti come questi.
Corrado Abbate - "il Reportage", 2011